Di Giovanni Ruggiero
Ci sono tonnellate di pagine ed inchiostro, dedicate in letteratura all’argomento ansia. Intere biblioteche dedicate al panico, all’angoscia. Centinaia di ore a dare spiegazioni più o meno fisiologiche di quanto accade all’interno della persona ansiosa, spiegazioni più o meno psicologiche su cosa sia, come funzioni, quali strutture cerebrali si attivino.
Da un punto di vista fenomenologico esistenziale l’ansia (cosi come tutti gli altri sintomi) sono visti come una situazione creativa, un adattamento creativo, anzi, il miglior adattamento possibile tra l’ambiente e l’organismo. Tra l’ambiente e noi.
Ansia.
Chi più chi meno, tutti abbiamo un’idea di cosa sia il fenomeno “ansia”: quello stato di preoccupazione costante, più o meno duratura nel tempo, che sopraggiunge come una sorta di preparazione ad un pericolo. E qui è necessario un primo distinguo: ovvero la soggettività di cosa sia pericolo: dall’esame all’università, ad una condizione meno specifica in cui è effettivamente difficile riscontrare “l’oggetto” del pericolo.
Avete presente l’ansia?
Respiro corto e veloce, sensazione di allerta costante, pensieri di pericolo, tremori, mani ghiacciate, oppure bagnate di sudore, minzione frequente, nervosismo, tensione muscolare, tachicardia, nausea, dolori allo stomaco, difficoltà respiratoria…… e se le parole mancano i pensieri esprimono “oddio oddio oddio……”
In risposta a cosa? “non lo so, ma ho l’ansia”.
L’ansia costringe l’organismo ad un’attivazione di tipo fisico. Da un punto di vista evolutivo, l’organismo che si prepara in questa maniera, qualcosa ha percepito, per cui è necessaria una preparazione a fare qualcosa. Cosi come la rabbia costringe l’organismo alla preparazione ad uno scontro, l’ansia (che molti sono concordi nell’incastonare nella grande famiglia delle paure), costringe l’organismo alla fuga; anzi: mette la persona nella condizione di evitare un ipotetico pericolo PRIMA che questo si manifesti.
Una certa quota d’ansia è salutare: immaginando lo studente che si prepara ad affrontare l’esame, la giusta quota di preoccupazione lo costringe a studiare e studiare ancora. Il che lo renderà più preparato. Il che gli fornirà maggiori chance di passare l’esame che gli permetterà di concretizzare diversi mesi di studi. Oppure come accadeva anni fa, gli permetterà di rinviare il servizio militare.
Ottimo e protettivo come meccanismo.
Il problema serio diventa quando tutto è percepito come pericolo. Lo spazio d’azione della persona allora inizia a restringersi in maniera violenta e inesorabile, passando da un “normale” spazio di vita ad uno sempre più ridotto. E poi ancora e ancora. Fino a che l’unico luogo di vita possibile diventa (come spesso viene riferito) il divano, piuttosto che il letto.
Il tema diventa: sono al sicuro, si….ma che prezzo pago per questa sicurezza?
ALLEATI CON IL PANICO.
Frase insolita (o abbastanza insolita) da sentirsi dire, in quanto terapeuti. Che vuol dire allearsi con il panico?
Vuol dire creare una cornice che possa dare un senso ad un fenomeno che per chi lo vive è totalizzante, invalidante e molto molto spesso privo di un senso: accade ma non so perché.
Che senso ha allora per me terapeuta, allearmi con il panico? Ma soprattutto che senso ha per il paziente?
Innanzitutto non vuol dire coalizzarci contro la persona sofferente, tutt’altro.
Vuol dire permettere al paziente di uscire un attimo dalla tempesta, e accendere un faro sulla nebbia che lo circonda. Accendere la luce non vuol dire essere “guariti”, ma sostanzialmente vuol dire permette di far luce su quanto accade, anzi: sulla responsabilità propria e personale della persona che struttura e vive (potrei scrivere sceglie di vivere) nella paura. C’è un detto militare che dice “fortunato il soldato che può guardare negli occhi il suo nemico”.
E si, perché da un punto di vista esistenziale, è importante porre l’accento sulla propria responsabilità delle proprie cose.
“Già sono ansioso ed è pure colpa mia?”. Nessuno parla di colpe, ma di responsabilità.
Potrei andare a vedere l’esatta definizione italiana sia di colpa che di responsabilità.
Dico solo che a sapore, la differenza sta in questo: la colpa è un’etichetta, una sorta di valutazione morale di qualcosa; la responsabilità è l’insieme di valutazioni, scelte e comportamenti inerenti una determinata situazione, la possibilità di poter rispondere in un determinato modo. Se non si risponde di solito, è perché si è morti. Oppure si fa parte della famiglia dei minerali. I sassi non hanno risposta.
Oppure si è ansiosi.
Ri-leggendo, una delle critiche su quest’ultimo punto potrebbe essere: “e gli animali che si fingono morti?”.
Rimanere immobilizzati, fingere la morte, secernere sostanze che simulano l’odore di morte, ha un nome tecnico, che è Tanatosi: è un modo, non solo creativo, ma direi geniale, per evitare il pericolo che qualche predatore attacchi. E allora possiamo considerarla una non risposta? Tutt’altro. Direi una risposta perfetta per scampare ai pericoli. Negli animali tale risposta però è circoscritta solo nei momenti di reale pericolo: c’è il predatore e non posso scappare: l’unica è fingermi morto e sperare che a lui piaccia la carne fresca e non le carcasse.
Ci sono momenti di tranquillità (“di relativa tranquillità, vorrai dire”), altri in cui l’ansia si presenta. Partiamo dal presupposto che qualcosa di diverso sia accaduto: qualcosa di diverso per cui viene in qualche modo richiesta una reazione.
Le reazioni possono essere molte e molto diverse.
Oppure la persona in questione può decidere di non voler reagire. Ma la richiesta ambientale c’è e non reagire vuol dire solo spalmare il rospo che si sta per ingoiare, con un qualche lubrificante, in modo da rendere (o perlomeno si spera) la sua deglutizione più facile. Ora chiedete (oppure chiedetevi) se questa modalità funziona sul lungo periodo.
E si….perché fondamentalmente ingoiare rospi, di suo può non essere una cosa sbagliata. Farla diventare una modalità consueta, spesso automatica, a mio avviso si.
Per i terapeuti sistemico/familiari l’ansia o l’attacco di panico, sono manifestazioni che nella loro consuetudine, parlano di legami familiari invischianti: ovvero strategie familiari volte al mantenimento di un ordine che, per quanto ad un primo sguardo, grottesco e paradossale, costringono tutti gli elementi di un gruppo familiare ad una stasi. Naturalmente è facile immaginare come le persone abbiano la tendenza ad essere felici (o come direbbe il DR House, a ridurre al minimo l’infelicità): è come se questa tendenza verso il benessere venisse bloccata e la persona in questione, fedele ai dettami familiari, osservi pedissequamente questi mandati, che da un lato mantengono l’ordine, dall’altro impongono alla persona una costante dose di stress (un po’ come avveniva nell’esperimento dei topi messi nelle gabbie con il pavimento elettrificato: i topi che nonostante gli sforzi, non riuscivano ad eliminare il disagio provocato dalla corrente elettrica (quando si presentava), si rassegnavano e sviluppavano patologie di vario genere (l’esperimento era volto a trovare una correlazione tra lo stress e patologie neoplasiche).
Porrei queste domande:
- Se non fosse intervenuta l’ansia, che tipo di comportamento avresti potuto avere?
- Come ti facilità le cose l’ansia? È paradossale lo so, immaginare che l’ansia, che è vissuta in maniera così invalidante, possa servire a qualcosa. Ma prova a guardarci.
- Cosa stai evitando di dire o fare? (evitare vuol dire prendersi la briga di non dire o fare qualcosa che l’organismo in quel momento ti chiede di dire o di fare: può essere un evitamento di tipo cognitivo, o magari fisico: nota se in quei momenti il tuo respiro fluisce liberamente, se le tensioni muscolari aumentano, se spuntano dei dolori magari a livello gastrico oppure di testa.
Per citarne solo alcune delle possibili.
Altro concetto è poi quella che alcuni terapeuti definirebbero come “manipolazione ambientale”.
Strano è, ma è una condizione che mi capita di incontrare con una certa frequenza, è proprio questa: si cerca di mutare l’ambiente. Si cerca di cambiare le persone.
C a m b i a r e l e p e r s o n e.
Dal mio punto di vista è una cosa abbastanza inutile, energeticamente dispendiosa e con scarsissimi risultati. È un po’ come dire: sono una pianta: foglie larghe e carnose, normale attività di fotosintesi: ad un certo punto (per eventi vari) mi trovo a vivere nel deserto. Invece di tramutare le mie foglie in spine (cosa che mi permetterebbe la sopravvivenza in un ambiente estremo così com’è il deserto), tento di far piovere. O ancora peggio, aspetto, raccontandomi, che prima o poi le cose cambieranno.
Prima o poi pioverà.
È facile immaginare che il deserto non diventerà la foresta pluviale e io avrò una sopravvivenza che potrei definire perlomeno limitata.
Si giunge alla conclusione che forse si muore; in altri casi ci si costringe ad una condizione in cui (come direbbe un mio zio) “non si campa e non si crepa”. Credo sempre che i modi dire di “campagna”, che risentono cioè di un’antica tradizione basata su un rapporto diretto con l’ambiente, pronunciati da persone che hanno dovuto a forza starci in contatto (e con poca o alcuna intenzione di manipolarlo), siano molto zen e spesso hanno l’idoneità o i requisiti della saggezza.
Per quanto riguarda il cambiamento avviene una cosa del genere a quella del cactus: si ha paura di sperimentare il nuovo, si ha paura di uscire da un abito strettissimo a favore di uno comodo e confortevole.
In qualche modo, e paradossalmente, ci si rifiuta di abbandonare le cose che ci costringono alla sofferenza, a favore di una vita che sia maggiormente soddisfacente.
Mentre leggi, e se leggi, probabilmente hai a che fare con il problema dell’ansia (in maniera diretta oppure indiretta) e delle cose familiari, prova a fare qualche riflessione che possa in qualche modo incorniciare i momenti ansiosi: prenditi un minuto e rifletti sulle tue vicende personali e familiari e di coppia;
- Sei una persona soddisfatta? Anzi, facciamola statistica: in che percentuale sei soddisfatto o soddisfatta?
- Ti limiti nel tuo essere persona (ci sono cose che vorresti fare ma che non fai?);
- Cerchi di cambiare, o aspetti che siano gli altri a cambiare per te, perché magari ti vedono sofferente?
- Cosa succede attorno a te, durante i tuoi momenti ansiosi?
Sono spunti di consapevolezza che hanno lo scopo di chiarificare quanto accade in quei momenti così sofferenti. Un modo come un altro per avviarsi verso il processo di cambiamento.